Ponte alla Palancola

Facciamo un piccolo salto nel passato, come se ci trovassimo a metà dell’800: al posto del ponte c’è qualche tavola di legno a permettere il passaggio fra le due sponde (“palancola” indica appunto una tavola messa di traverso a un fosso). Dal lato di via della Palancola si stende un paesaggio agricolo, cosparso di piccole borgate raccolte intorno a ville signorili, come quella dei Marignolli, monasteri e parrocchie. È lungo la via Faentina, l’antica via romana diretta a Faenza, che nel corso dei secoli sono sorti i primi nuclei abitati.

Fra i più antichi c’è il borgo attorno alla Chiesa di San Marco al Mugnone, risalente almeno al 1058. Questa fu ribattezzata San Marco Vecchio dopo la costruzione dell’omonima chiesa nell’attuale Piazza San Marco, nel 1290. Seguono in ordine di tempo il complesso della Chiesa di Santa Maria del Fiore al Lapo, costruito dopo la peste del 1348 da un tagliatore di stoffe di Ponte Vecchio, tale Lapo di Guglielmo Pollini, da cui prende il nome ancora oggi il rione. Il complesso degli abitanti di una parrocchia era anticamente indicato come popolo, termine con cui si indicava il territorio stesso della parrocchia. Così nella mappa sullo sfondo possiamo leggere come intorno al Popolo di San Marco Vecchio, si trovavano altre comunità rurali: il popolo di S. Gervasio verso est, quelli di S. Martino a Montughi e S. croce al Pino verso la via Bolognese.

Questi Popoli della cintura suburbana furono inclusi dal punto di vista amministrativo nella Comunità di Fiesole con il riassetto operato nel 1774 dal Granduca Pietro Leopoldo, per tornare sotto il controllo di Firenze un secolo più tardi. Fra le trasformazioni urbanistiche volute per vestire degnamente i panni di Capitale del Regno, nel 1865 il capoluogo annesse infatti ampie porzioni dei Comuni limitrofi.

Sull’altra sponda, scendendo il corso d’acqua lungo l’attuale via Boccaccio raggiungiamo Le Cure, un borgo in cui fervono le attività commerciali, legate in gran parte dall’acqua del Mugnone e di altri torrenti oggi tombati (come il fosso San Gervasio), deviata appositamente in diversi canali. Alle tradizionali attività dei mulini azionati ad acqua, dei lavatoi e di stabilimenti per la tinta dei panni si aggiungono all’inizio dell’800 diverse imprese industriali, che necessitavano di ingenti quantità di acqua. Una delle più imponenti è la filanda a vapore della società Riva&Maffei, diventato nel 1830 il secondo setificio cittadino, con 650 telai attivi. Quest’attività chiuse nel 1870, allorché era da poco attiva, proprio in via Maffei, la Fonderia delle Cure, poi Fonderia Berta, che ha sfornato gran parte dei tombini e lampioni di Firenze fino agli anni’70 del XX secolo.

Per millenni il torrente ha offerto all’uomo materie prime, forza motrice per artigianato e industria e un pratico scarico per i rifiuti. Oggi, spariti campi e prati del secolo scorso, il Mugnone ci offre un rigenerante contatto quotidiano con la natura in piena città. Anche nel ristretto spazio fra un muro d’argine e l’altro possiamo passeggiare fra anatre e aironi, rilassarci accanto allo scrosciare di una cascatella o divertirci in gare di lancio del ciottolo. Gli esseri umani non sono però gli unici fruitori di questo ambiente semi-naturale, che ospita comunità animali e vegetali molto ricche. Il Mugnone deve essere gestito in modo da tenere conto delle complesse funzioni che svolge come ecosistema e non solo in base a criteri estetici, come un giardino pubblico dai prati ben tosati.

Le sponde sono coperte da un intrico di vegetazione riparia, composta da erbe e cespugli adattati a crescere lungo le sponde e nell’acqua, trascorrendo almeno una parte dell’anno con le radici a mollo. Anche in un ambiente così trasformato dall’uomo troviamo una enorme varietà di piante acquatiche, come la mestolaccia, la stiancia, il farfaraccio, il crescione, il sedano acquatico o la salcerella.

Questa selva in miniatura offre rifugio e nutrimento in ogni stagione ad una fauna variegata, sia stanziale che migratoria: le anatre costruiscono il nido al riparo delle alte erbe mentre le gallinelle si muovono sicure nel canneto. Frutti e semi, sono il cibo preferito di passeri e altri uccelli granivori, mentre le fioriture attirano farfalle, api selvatiche e altri insetti impollinatori, a loro volta cibo per uccelli, rane e pipistrelli e altri insettivori. Radici e fusti sommersi creano un asilo nido per girini e avannotti (i pesci neonati) lungo le rive, dove possono svilupparsi al riparo dai predatori, insieme a chiocciole, scorpioni d’acqua, larve di libellule e di effimere e tantissimi altri invertebrati acquatici.

La vegetazione offre molti altri servizi: all’ombra delle fronde l’acqua si mantiene più fresca, quindi più ricca di ossigeno, e contribuisce a rinfrescare anche il territorio circostante. La flora riparia depura le acque: le radici assorbono composti presenti nelle acque di scarico, come nitrati e fosfati, preziosi per la crescita del vegetale ma tossici per l’ambiente se troppo concentrati (è il meccanismo alla base della fito-depurazione). Gli argini in terra sono stabilizzati dalle radici, che trattengono il suolo, mentre i fusti delle piante flessibili, come le canne, schiacciati sul fondo durante le piene, riducono la forza erosiva dell’acqua.

Il “sudicio” invece dipende solo a da noi umani, che continuiamo a usare il torrente come una discarica: se i rami trattengono i rifiuti portati dalle piene hanno fatto la loro parte, poi tocca a noi raccoglierli. Proviamo ad essere rispettosi del torrente, a godercelo così com’è – moscerini e cori di rane compresi – e ad osservarlo armati di curiosità, così scopriremo un tripudio di biodiversità in quel che appariva come un disordinato groviglio di erbacce.

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